L’11 ottobre il Consiglio Comunale di Torino ha approvato una delibera che rende Smat, l’azienda partecipata che gestisce l’acqua del capoluogo piemontese, una società di diritto pubblico. L’esito del referendum del 2011 per l’acqua pubblica è stato quindi accolto nella sua interpretazione più radicale, con il voto favorevole del Movimento 5 Stelle (che esprime la giunta) e di Torino in Comune, coalizione civica presentatasi alle scorse elezioni amministrative. Le opposizioni lamentano che il modello di società di diritto privato a proprietà pubblica (un consorzio di comuni della provincia torinese) funzionasse già senza problemi. Ad ogni modo, il percorso che ha portato all’approvazione è stato tutt’altro che semplice. A Luglio 2016 la giunta aveva respinto un’analoga delibera di Torino in Comune; successivamente, la sindaca Chiara Appendino aveva attinto agli utili di Smat per sostenere il debito della città, andando non solo contro il mandato del referendum di 6 anni fa, ma anche contro lo stesso programma elettorale del M5S. Ora il Comitato per l’acqua pubblica esulta per il risultato, che tuttavia è già in bilico: il Comune di Torino detiene il 64% di Smat, ma per rendere effettiva la delibera ha bisogno che il 75% dell’azionariato sia favorevole al passaggio al pubblico; gli altri 290 comuni della proprietà sono principalmente a guida PD, che è contrario.
Ma qual è lo stato dell’acqua pubblica a 6 anni dal referendum con cui 27 milioni di italiani si dichiararono favorevoli a lasciare le logiche di profitto fuori dalla gestione delle risorse idriche? Deludente. Dopo Napoli, Torino è solo la seconda grande città a rendere (forse) l’acqua un bene comune.. L’esito referendario è stato svuotato in vari modi. A Giugno scorso, ad esempio, il Consiglio di Stato ha respinto i ricorsi di Codacons, Federconsumatori e Associazione Acqua Bene Comune Onlus contro il metodo di calcolo delle tariffe approvato nel 2012. Il motivo di tali reclami sta nel fatto che le aziende che gestiscono l’acqua sono formalmente private e considerate ‘a rilevanza economica’: questo implica che la loro priorità, riconosciuta dalla legge italiana ed europea, sia pagare gli interessi sul capitale investito. Al netto di questo, basta loro garantire la ‘economicità’ del servizio, senza caricare le tariffe con aggravi di vario tipo e assicurando che il costo per l’utente finale sia, almeno in teoria, al meglio dell’efficienza economica. Ma in quel costo devono comunque entrare i profitti dei mercati finanziari dove si pagano gli interessi.

Le tariffe, infatti, sono cresciute a dismisura. L’ente a cui spetta la vigilanza sulle quelle di elettricità, gas e acqua, Aeesgi, non è riuscito a fermare un rialzo del 42,1%. Dal 2006 il prezzo dell’acqua per i consumatori è cresciuto dell’89,2%: più di gas, luce, trasporti urbani, treni e cinque volte e mezzo di quanto sia aumentata l’inflazione. Il prezzo dell’acqua in Italia rimane comunque tra i più bassi al mondo; d’altra parte, non si può ridurre tutta la questione ai prezzi al consumo. Il problema, piuttosto, è che gli utili delle aziende (in aumento) non vengono investiti nella rete idrica. E le nostre infrastrutture, di conseguenza, cadono a pezzi: il 60% di queste ha più di 30 anni, il 25% addirittura più di 50, con solo 30 euro su 80 di quelli che, per ogni abitante, andrebbero investiti per sistemarle. Così, il volume delle perdite supera mediamente oltre un terzo dell’acqua totale: 45% al Sud, 46% al Centro e 26% al Nord. Inoltre, il 20% in media dell’acqua non viene depurato, con punte del 30% al Sud. Uno scenario preoccupante, a maggior ragione se si considera che il 21% del territorio italiano è a rischio desertificazione e nel 2017 il 60% è stato colpito da siccità, intensa soprattutto nelle zone dove la rete idrica ha più problemi, al Sud e al Centro (dove la siccità, tra l’altro era ancora un fenomeno inedito).
Un meccanismo basato su profitti e competizione (seppur parzialmente), quindi, sembra incapace di riequilibrare questa situazione di disparità Nord-Sud e di sotto-investimento cronico. Ma può fornire un ottimo servizio localmente. Ad esempio, il gruppo Cap, che gestisce il servizio idrico a Milano, è stato premiato come ‘miglior utility’ italiana in base ai parametri di ‘performance economico-finanziarie, sostenibilità, comunicazione, effetti sul territorio, ricerca e innovazione’. Un sistema ibrido pubblico-priva, però, può anche propendere nettamente dalla parte del privato e causare situazioni aberranti come quella della Sicilia, dove l’acqua viene venduta due volte. Sì, due volte: Siciliacque, una società per il 25% della Regione e per il 75% della multinazionale francese Veolia, compra l’acqua a 8 centesimi al metro cubo e la rivende a 69 ai gestori privati locali, che poi la vendono ai cittadini. Per dare un termine di paragone, 60 centesimi al metro cubo è il costo dell’acqua che esce dal rubinetto dei milanesi, cioè alla fine dell’iter. Inoltre, Siciliacque detiene quasi tutte le infrastrutture idriche dell’isola con una concessione di 40 anni (dal 2004) e un canone da 5 milioni l’anno, cifra assolutamente esigua per un patrimonio che conta 1800 km di rete idrica, 6 grandi invasi e annesse sorgenti.
Sì, in Sicilia l’acqua viene venduta due volte.
A Napoli, invece, è stato scelto un modello completamente differente. Nel 2011, appena dopo il referendum, è stata approvata una delibera per rendere pubblica Arin Spa, la società controllata dal Comune. Nel 2013 nasce Abc Napoli, che sta per ‘Acqua Bene Comune’. Il principio cambia notevolmente. Così diceva Maurizio Montalto, ex-commissario straordinario di Abc Napoli, in un’intervista ad Internazionale: “una società per azioni deve necessariamente fare profitti, è nelle sue finalità, altrimenti va messa in liquidazione. Un’azienda pubblica invece non deve fare profitti, la sua priorità è garantire il servizio pubblico: deve fornire acqua di qualità, investire gli utili nell’infrastruttura e migliorare il servizio”.
Presa Diretta sull’esito del referendum sull’acqua pubblica a Napoli.
I problemi non sono mancati, anzi. A Napoli si sono addirittura confrontati con una legislazione per il passaggio da privato a pubblico che manca di norme precise, mentre per il percorso inverso è pienamente esaustiva: leggi nazionali e regionali sembrano remare contro un modello 100% pubblico, denuncia il sindaco Luigi De Magistris. Ma il servizio regge, garantisce prezzi bassi per una grande città e fa utili che reinveste nella rete idrica e in progetti di cooperazione internazionale. Sul rapporto tra partecipazione dei cittadini alle decisioni dell’azienda e il controllo di questa da parte dell’amministrazione comunale, tuttavia, rimangono delle tensioni.